Cronaca L'inizio di tutto: la Grotta dei Cervi di Porto Badisco Per comprendere quanto siano profonde le radici dell’Identità del Nostro Salento occorre inoltrarsi nelle profondità delle sue viscere, all’interno dei quali i nostri pi&ugra... 10/10/2009 a cura della redazione circa 4 minuti Per comprendere quanto siano profonde le radici dell’Identità del Nostro Salento occorre inoltrarsi nelle profondità delle sue viscere, all’interno dei quali i nostri più ancestrali progenitori tramandarono ai posteri il loro patrimonio spirituale e cultuale. Occorre nello specifico ripercorrere il viaggio al “centro della terra” che la notte del 1 febbraio 1970 il Gruppo Speleologico Salentino “P. De Lorentiis”, composto da Severino Albertini, Enzo Evangelisti, Isidoro Mattioli, Remo Mazzotta e Daniele Rizzo, compirono in una grotta di Porto Badisco, il mitico approdo non solo di Enea, ma di quelle genti che diecimila anni prima di Cristo portarono dal Mediterraneo la civilizzazione primitiva nel Salento preistorico. Genti straordinarie, un popolo di cacciatori che del modo di procacciare il necessario per sopravvivere aveva già una percezione sacra. Il cacciatore non era quindi solo l’uomo che correva il rischio di affrontare ad armi pari la preda, ma era anche il sacerdote della natura stessa che garantiva alle comunità il cibo per sfamarsi, le pelli per vestirsi, le ossa ed i denti per creare utensili ed ornamenti. Il cacciatore salentino primitivo, che assieme agli altri membri del suo clan, individuava un animale con le cui carni sfamare la comunità, approcciava alla caccia con lo stesso rispetto col quale un sacerdote si prepara alla Sacra Liturgia. Perché i misteri della caccia, la conoscenza dei suoi segreti, delle abitudini e delle piste degli animali, costituirono il primo vero e proprio deposito di sapienza magica e religiosa della storia umana. Ai misteri della caccia, cui si ricollega la sopravvivenza dell’uomo primitivo, sono intimamente legati i misteri della vita. A fiere ed animali è legato quell’approccio religioso col quale l’uomo primitivo si accostava alla natura, di modo che, uccidendo l’animale l’uomo, oltre che cibarsi delle sue carni, ne acquisiva la forza e le qualità superumane. Uccidere una fiera significava esserne più forte e quindi ricevere dall’atto dello spargimento del sangue la forza vitale e le facoltà. Spesso accadeva che un determinato animale divenisse il totem, il protettore di una comunità, al quale gli uomini si affidavano per ottenere fortuna nella caccia. Erano animali rari, pregevoli per grandezza e per bellezza, le cui spoglie, una volte uccisi, divenivano il nume tutelare dei clan dei cacciatori (come anche accadeva che le spoglie di un re o di un nemico particolarmente forte venissero conservate dalle comunità primitive). Ed i cacciatori, quando dovevano ritornare a compiere il loro dovere-necessità, inscenavano prima una caccia sacra, che precedeva quella vera e propria, una caccia nella quale offrivano al loro nume ed all’animale ucciso qualcosa in cambio della vita, alcuni spargevano il proprio sangue, altri si vestivano delle pelli di altre fiere (come si vestivano delle pelli dei loro nemici), altri colpivano simbolicamente il feticcio della bestia oggetto della battuta di caccia, altri la accecavano con forme di magia simpatica che tanto ricordano le religioni naturali africane. Altri ancora, per tramandare questi riti alle future generazioni, e farli partecipi del sacro rito della caccia, rappresentavano i simboli dei loro dei, della dea madre natura e dei signori degli animali nelle profondità delle grotte sì da divenire un vero e proprio itinerario iniziatico per quei fanciulli che erano pronti, una volta divenuti adulti, a seguire la via del cacciatore. Si ipotizza che, dopo venir costretti a lunghi digiuni, venissero rinchiusi nelle grotte, le ventri sacre della Madre Natura onde apprendere dalle pitture parietali i segreti della caccia, spiegati dallo stregone del clan. Così, debitamente istruiti e sufficientemente affamati, potevano finalmente confrontarsi con la loro prima preda. Chi avesse ucciso la più grossa o la più pregiata avrebbe avuto la preminenza sugli altri fanciulli, i quali, tutti, una volta ucciso il primo animale, si abbeveravano del suo sangue e ne venivano cosparsi. Il rispetto per quella prima sacra vittima spesso era tale che i giovani cacciatori se ne ornavano dei denti. Entrati a far parte della comunità dei cacciatori ne seguivano i riti, come quelli che precedevano la prima grande caccia dell’anno, quella che coincideva con il risveglio della natura. Allora gli uomini sacrificavano ai signori degli animali altri animali, e talora se stessi, al fine di ricompensare con delle vite le vite delle prede che venivano meno per il procacciamento del cibo. Tra tutti i totem dei clan, allorquando questi si riunivano per i riti di iniziazione dei nuovi cacciatori, premineva il re dei numi tutelari, il Signore dei signori degli animali, lo sposo sacro della dea madre, la cui rappresentazione più comune era quella di un cervo. In questi riti si trova forse il mistero dei pittogrammi della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, effettuati con linearità ed assoluto schematismo quasi astratto con guano di pipistrelli dall’antico progenitore. Dinanzi a questa primissima testimonianza della nostra identità non si può non provare un senso di stupore e di ammirazione, lo stesso che provarono gli scopritori della Grotta dei Cervi (nella foto) quell’inverno del 1970. A loro, a Nunzio Pacella e Pino Salamina, Luigi Bello, Antonio Corsini, Salvatore Scarzia e a Bruno Di Giovanni, coordinati da Mario Moscardino, deve levarsi il grazie più sentito di tutto il Salento per la sensazionale scoperta della sua prima, più profonda radice, la radice del cacciatore. Vincenzo Scarpello
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